di Flaminia Beneventano e Marco Vespa
In occasione dell’uscita del nuovo saggio Il mito di Enea (novembre 2013), per la collana Mythologica Einaudi, abbiamo deciso di organizzare un incontro con gli autori del libro. Maurizio Bettini, filologo e antropologo del mondo antico e saggista, ha scritto Il racconto di Enea, in apertura del volume; Mario Lentano, studioso di letteratura e cultura latina, è l’autore del saggio. Il libro nasce dalle ricerche, dal confronto e dall’approccio antropologico che caratterizzano gli studi del Centro di Antropologia e Mondo Antico dell’Università di Siena: con le nostre domande abbiamo cercato di sapere, dagli autori, quali siano gli obiettivi e, insieme, l’efficacia di questo approccio.
Professor Lentano, questo studio è incentrato sul personaggio di Enea: sappiamo che esistono già molti studi che hanno affrontato questo tema e, più in generale, l’epica virgiliana. Volevamo chiederle per cominciare: sotto quali aspetti il suo studio si discosta dai precedenti e, soprattutto, come l’approccio antropologico ha influenzato le sue ricerche?
Lentano: Il problema in questo libro è stato proprio quello di far sì che fosse una cosa diversa dal saggio sull’Eneide: intanto perché di saggi sull’Eneide ne sono già stati scritti moltissimi e poi perché non era giusto che fosse questo. Bisognava che fosse in qualche modo una storia del mito: il libro vuole cercare di capire come la figura di Enea, che compare per la prima volta nell’Iliade di Omero in una posizione tutto sommato abbastanza defilata, attraverso una serie di sviluppi in parte imprevedibili finisca per assumere una centralità soprattutto nella ricezione presso i Romani di questo mito e della quale in Omero esistevano solo alcuni spunti possibili. Questo è, nei fatti, uno studio diacronico di come si è sviluppato questo mito. L’Eneide di Virgilio è un punto di riferimento imprescindibile: il taglio di questa collana vuole anche mettere in evidenza il modo in cui la modernità recepisce un personaggio del mito antico e dal punto di vista della ricezione moderna la scrittura virgiliana del mito di Enea è stata decisiva. Enea non sarebbe stato quello che è stato nell’immaginario della cultura europea senza Virgilio, dal quale dunque bisogna necessariamente passare. Lo sforzo è stato poi quello di fare di Virgilio uno solo dei momenti della storia di questo mito, sebbene uno dei più significativi e decisivi. Si è trattato di fuoriuscire dall’ottica incentrata sul personaggio di Virgilio per raccontare fondamentalmente il mito di Enea. L’approccio antropologico è stato importante intanto per sottolineare come il mito sia uno dei modi attraverso i quali le culture antiche raccontano se stesse e i propri modelli culturali; poi perché del personaggio di Enea ho cercato di mettere in luce certe caratteristiche che sono oggetto di particolare interesse dell’antropologia e secondo me meno bene studiate finora, come sue relazioni con il suo padre umano, con la sua madre divina e così via.
Prof. Bettini, a proposito di approccio antropologico: leggendo il saggio ci è parso particolarmente rilevante il tema della parentela, che ha appena messo in luce il Prof. Lentano, facendo particolare riferimento al rapporto che lega le tre figure – possiamo dire – protagoniste: Anchise, Venere, Enea. Anche in considerazione degli studi sulla parentela da lei condotti, a partire da Antropologia e cultura romana ai più recenti, come pensa che i legami di parentela costruiscano l’identità dei romani di età augustea anche al di fuori del poema virgiliano?
Bettini: Si potrebbe formulare questa teoria, che improvviso adesso, quindi mi perdonerete se è un po’ fragile: se si parte da Augusto e quindi dai Giulii, c’è da un lato la necessità di fare di Augusto un eroe che abbia, alla maniera greca, un’ancestralità divina costruita attraverso Iulo, Enea, Venere. Quindi Enea si ritrova ad avere una madre divina e questo è fondamentale perché su un modello di tipo mitologico greco si costruisce così un’ancestralità anche per il monarca. Però, teniamo conto di un altro aspetto, che è quello di Romolo e Remo, che hanno anche loro un’ancestralità divina paterna, di Mars. Se voi immaginate la dialettica tra Venus da un lato e Mars dall’altro, nella cultura romana – già a partire dal poema di Lucrezio in cui queste due figure stanno insieme – e proiettate la figura di Augusto su Roma in generale – cosa che Augusto vuole fare, ai suoi funerali sfileranno tutti: Enea, eroi etc… – alla fine si costruisce un popolo che ha un’ancestralità divina sia materna che paterna, perché da un lato c’è Venus e dall’altro c’è Mars. È quindi quello che dice scherzosamente Livio nel suo proemio: sembrano essere fabulae queste riferite a Mars, ma considerando le grandi vittorie dei Romani in guerra la paternità marziale non sembra poi così fuori luogo. Ed è anche qualcosa di più di questo: quello dei Romani è un popolo che ha le sue radici e le sue origini negli dèi. Ripeto, nell’Eneide è chiaramente Venus ad essere figura centrale, però se si pensa alla sfilata degli eroi nel VI libro anche Mars ha lì il suo ruolo. Bisogna poi sempre uscire dal poema e vedere come certi culti (mi riferisco a Venus Victrix, Venus Felix etc.) rimandano anche a una componente guerriera di Venus che riflette anche l’Afrodite greca ma conservando – a Roma – un molto più esplicito riferimento alla sfera marziale.
Parliamo ancora di Venus a Roma: forse pochi sanno che il suo nome indicava in origine nella cultura latina una ‘forza irresistibile che trascina’. Che legame c’è tra questa parola e gli attributi della divinità?
Bettini: A questo proposito cito il grande libro di Robert Schilling (La réligion romaine de Vénus depuis les origines jusqu’au temps d’Auguste, Ndr.) degli anni Cinquanta che rivoluziona un po’ la visione di Venus a Roma. “Venus” è in realtà un sostantivo neutro dai tratti morfologici un po’ arcaici ed estremamente interessanti: dà vari esiti, sia fonetici sia semantici, sia addirittura di genere, perché “Venus” poi diventa il nome proprio di una donna, di una figura femminile. Alla stessa famiglia semantica appartiene anche il verbo “veneror, venerari” che indica la preghiera, il modo in cui ci si rivolge alla divinità. Poi abbiamo anche “venia” che in genere si dice voglia dire perdono, ma è una pessima traduzione: mettendo insieme questi elementi si ricava che “venus” è una sorta di sentimento piacevole, di gioia quasi amorosa che è anche quella che si cerca di stabilire con il dio quando lo si venera. La venia indica quindi il “tornare a piacere” a qualcuno che ci perdona e consente di ristabilire un legame non tanto di benevolenza, ma proprio basato su un sentimento di affetto. Venus poi diventerà anche il nome della dea ma è, prima di tutto, un sostantivo che indica un sentimento di trasporto e gioia, fecondità e amore. È un modo di ragionare tipico romano, che noi ricostruiamo con fatica, ma che evidentemente per un romano era abbastanza spontaneo.
A proposito di parentela: ci dica qualcosa di più, Prof. Lentano, del rapporto di Enea con la madre Venere. Nel testo lei sembra dedicarvi molto spazio. La cultura latina costruisce un proprio paradigma normativo in relazione al ruolo e ai comportamenti leciti e autorizzati di una matrona romana. Di fatto la madre dovrebbe porsi al fianco del figlio e sostenerlo in situazioni di difficoltà, soprattutto in casi di paterna iniuria, qualora cioè si creino dissidi all’interno del rapporto padre-figlio. Alla luce di questa modellizzazione del ruolo materno, come possiamo definire il rapporto tra Enea e sua madre Venus nel corso dell’Eneide? Venus è una madre esemplare e conforme a quanto la società e la cultura dei cives, uomini e padri, hanno stabilito per lei?
Lentano: Il modo in cui a me sembra che la cultura romana costruisca il ruolo materno è abbastanza complesso, forse ancora più complesso di quello paterno, nonostante nella nostra percezione abbia uno spazio minore. Da un lato la figura materna è insistentemente posta come indulgente e il suo rapporto con il figlio si gioca soprattutto sull’emozione e sull’affettività, come recita il verso di Terenzio a cui voi fate riferimento della domanda, specialmente in caso di dissidi con il padre (paterna iniuria). Però si commetterebbe un errore di eccessiva modernizzazione a pensare che il discorso finisca qui: la madre romana è anche spesso chiamata a svolgere un ruolo di supplenza nei confronti di un padre assente o morto e a incarnare anche essa i valori collettivi al cui rispetto bisogna richiamare i figli. Un esempio macroscopico a questo proposito è la madre di Coriolano, rappresentante della patria stessa quando si reca in ambasceria dal figlio che sta attaccando Roma. Quindi la situazione sembra porsi in questi termini: la madre è chiamata a giocare all’interno delle compatibilità della ‘città dei padri’, per cui i suoi margini di manovra non devono comunque portarla a fuoriuscire da queste compatibilità. Questo tuttavia non sempre succede: ci sono figure femminili che lasciano che le proprie personali ambizioni le spingano in contrasto con le esigenze di ordine superiore (come Amata nell’Eneide che, seppure consapevole che il destino ha previsto per la figlia Lavinia un genero straniero, contrappone il proprio personale desiderio di vedere la figlia sposata con Turno). La figura di Venere in linea di massima rispetta i limiti all’interno dei quali una figura materna si deve porre e il suo ruolo è quello di sostenere Enea nel raggiungimento dell’obiettivo che il fato e Giove hanno stabilito per lui. Anche in questo caso la dea si concede un margine di autonomia, quando le figure maschili del pantheon sono distratte o rivolte altrove: ad esempio il momento in cui Venere è propizia all’innamoramento di Didone sembra collocarsi in uno di questi ‘vuoti’ della gestione maschile della vicenda di Enea. Sarà infatti poi Giove a intervenire per ricondurre la vicenda sui binari corretti. La figura materna, proprio alla luce di questa sua caratura affettiva, rischia continuamente di derogare dai limiti imposti e va quindi richiamata al rispetto della sua funzione.
Siccome abbiamo anche parlato già di fonti diverse e anche di fonti greche, qual è il ruolo invece di Afrodite, che – per ora – definiamo corrispettivo greco della Venus latina?
Lentano: In realtà del ruolo di Afrodite sappiamo molto meno: certo nell’Iliade è presente, interviene anche personalmente a salvare Enea minacciato da Diomede nel V libro. È un passo interessante perché la modalità di salvataggio è del tutto peculiare e senza paralleli nell’epica antica. Solitamente un eroe viene salvato attraverso l’uso dell’ achlùs, una specie di nebbia, usata per renderlo invisibile o gettata negli occhi del nemico. Afrodite fa invece una cosa abbastanza particolare: è come se tendesse le braccia e circondasse il figlio con il peplo. È una modalità questa specificamente materna, ed è interessante che Afrodite stessa poco dopo nel testo compaia come figlia a sua volta di una madre, Dione, che il mito antico sembra non aver mai conosciuto al di fuori di questo passo. Il testo sottolinea quindi il carattere della figura materna: prima di Afrodite in questo suo inedito intervento salvifico a favore di Enea; subito dopo, attraverso la rappresentazione di Afrodite come figlia ridotta in lacrime per l’ingiuria subita da Diomede a causa di una ferita insieme fisica e morale, e consolata dalla propria madre.
Afrodite e Venere: ci troviamo quindi di fronte a due dee diverse o a due aspetti della stessa divinità? Prof. Bettini, lei si è occupato a lungo di antropologia della traduzione nella cultura romana; alla luce delle sue riflessioni sulla nozione di interpretatio (ci riferiamo chiaramente al suo saggio Vertere, Einaudi 2012), come spiegherebbe la ‘traduzione’ di una divinità da una cultura a un’altra? Quali categorie culturali sono implicate in questo procedimento del tutto particolare?
Bettini: Venus e Afrodite sono divinità del tutto diverse, nella configurazione religiosa e cultuale, nella sfera di azione e anche nella sfera del mito e del racconto. Partiamo da Roma e dall’Eneide: Venus è una sorta di intermediaria tra Iuppiter e gli uomini e spesso si configura come figlia di Iuppiter. Se invece ci si sposta in Grecia, Afrodite non è affatto una figlia di Zeus, ma anzi appartiene alla stessa generazione. Afrodite poi non è una mediatrice, la mediatrice è Atena. Afrodite ha più una funzione semmai di interconnessione orizzontale tra le istituzioni, piuttosto che verticale tra un dio e gli uomini, mentre Venus abbiamo detto è legata a venia e al venerari e ha quindi funzione di mediatrice. È affascinante però come a un certo punto queste due divinità vengano poste in rapporto di analogia. Bisogna però fare attenzione: non è mai una traduzione o una equivalenza totale; il fatto che si possano mettere in corrispondenza divinità di culture diverse non implica mai che queste siano la stessa divinità, e questo è chiaro ai Romani stessi. La divinità straniera è ancora percepita come tale e quindi conserva ancora i culti originari e viene onorata come la si onorava dall’altra parte; la divinità propria è invece perlopiù venerata secondo i culti romani. La soluzione per studiare queste divinità ‘identificate’ è mettersi lì con calma e comparare. Come avviene in genere nei contatti tra culture, di solito si scoprono così una serie di territori di scarto, segno che il fenomeno di scambio non è mai brutale, per le divinità come per altri campi primo tra tutti il linguaggio.